Ingrediente n. 2 MANITESE
Alcune cose potrebbero essere vere e alcuni nomi diversi, ma non saprete quali.
Tra gli audaci del cinema Lux uno cercava
sempre di stimolarci con nuove proposte. Cominciò a parlarci di ManiTese, una
associazione benefica che organizzava campi di lavoro. Riuscì a convincerci che
sarebbe stata un’esperienza indimenticabile. E lo fu, anche per Mani Tese.
Partimmo
capitanati da Loris.
Un
campo di lavoro estivo significa raccogliere carta, ferro, vetro e stracci, praticamente
fare i robivecchi e con il ricavato finanziare micro progetti di sviluppo.
Partimmo
in Ciao Piaggio alla volta del
piccolo borgo cinto di mura medievali di Montagnana, 60 chilometri in motorino.
In
poco più di un’ora arrivammo. All'accoglienza chiesero le nostre disponibilità.
Cercavano
autisti. Mi offrii volontario per guidare. Guidai furgoni di varie misure e
tipo, dal cambio tradizionale o sul volante, con o senza servosterzo, con o
senza centine.
Fu
un’esperienza che mi servì molto quando, l’anno dopo, andai a scuolaguida per
prendere la patente.
A
Fine orario si comperava nei mercati ortofrutticoli a prezzi stracciati tutto
quello che era avanzato. Mangiavamo delle specialità tipo bistecca di melanzana
con contorno di melanzana, e melanzana impanata e fritta con contorno di
melanzana al funghetto. Non so perché ma le melanzane erano sempre a buon
mercato. Protovegani controvoglia.
Nacque
così il gruppo Mani Tese nel nostro paese.
Più
avanti col tempo ci attrezzammo con un furgone, stinto di un marroncino
stomachevole. Così lo dipingemmo di verde fluo e lo battezzammo Pisello.
Detta così, Manitese col Pisello non suona molto bene, lo riconosco, sembra un inserto su youporn.
Detta così, Manitese col Pisello non suona molto bene, lo riconosco, sembra un inserto su youporn.
Il Pisello era un un furgone Peugeot con le porte anteriori scorrevoli. D’estate erano aperte con una catenella, di scarsa sicurezza, che si fissava tra il montante della porta e la
serratura. In mezzo ai sedili davanti c’era il motore, coperto da una specie di
guscio di tartaruga. Questo assetto aveva il vantaggio di riscaldare l’abitacolo,
sempre; inverno ed estate, equamente.
Col
furgone organizzavamo raccolte continue di cartoni e stoffe che stipavamo
dentro a dei container rosa. Ci diedero una piccola sede dove una volta a
settimana si discuteva su come organizzare incontri e dibattiti, parlavamo di
commercio equo e solidale, di nonviolenza, terzo mondo, progetti di sviluppo. Di
settimana in settimana cercavamo di cambiare il mondo.
L’impegno
più importante fu organizzare un campo di lavoro nella nostra città.
Capo
venne un solo giorno lavorare alla raccolta di ferro. Lavorò 30 minuti, giusto il
tempo per lanciare un’asta appuntita sulla montagna di ferro vecchio. L’asta
cadde su una rete a molla di un letto, rimbalzò e si piantò nell'addome di un campista. Capo si scusò molto dal finestrino del furgone dove venne caricato a forza e allontanato
dal campo di lavoro.
C’erano anche dei milanesi.
Non conoscendo la città e volendo essere utili una sera portarono a cena un
gruppo di donne prelevate in zona Campo Marzio; prostitute. Erano convinti di
fare del bene, ma tutto nasceva dall'equivoco generato da una frase, «dai che
ci divertiamo», detta da uno di loro.
Comunque mangiarono con noi e alla fine ci divertimmo, non come pensavano loro.
Comunque mangiarono con noi e alla fine ci divertimmo, non come pensavano loro.
In
quel campo di lavoro persi il portafoglio con l’incasso di una giornata. Uno
dei più anziani mi accompagnò a fare la denuncia tranquillizzandomi. Era sulla quarantina, capelli a caschetto, folti baffi con barba non rasata e camicia
in jeans aperta sul petto villoso. Al collo un nastro di cuoio con una
medaglia.
«Non
preoccuparti dei documenti, di solito svuotano il portafoglio poi lo buttano
dentro una cassetta della posta». Due giorni dopo se ne andò, regalandomi la
sua medaglia, c’era una scritta partage, condividi. In effetti
condivisi abbastanza, visto che non si limitò a rubarmi il portafoglio, ma offrì
anche la cena alla mia fidanzata.
Giorni dopo mi chiamarono dalle poste e scoprii che era anche un veggente.
Giorni dopo mi chiamarono dalle poste e scoprii che era anche un veggente.
Quando
Mani Tese organizzava la raccolta in paese le leggi stradali svanivano in un
limbo.
Passavano
trattori con carri che di solito servivano per trasportare il fieno, e furgoni
di varie ditte. I carri e i furgoni si caricavano con quintali di carta, ferro
e stracci, senza stare lì a ragionare su concetti complicati come portata e
tara. Eravamo i precursori della raccolta differenziata.
Dentro, sopra e appesi ai trattori, ai carri o ai furgoni stavano le squadre della raccolta, ragazzi e ragazze tutti attaccati come cozze agli scogli. I mezzi scorrazzavano per il paese non visti da carabinieri o vigili, che casualmente giravano sempre la testa.
Dentro, sopra e appesi ai trattori, ai carri o ai furgoni stavano le squadre della raccolta, ragazzi e ragazze tutti attaccati come cozze agli scogli. I mezzi scorrazzavano per il paese non visti da carabinieri o vigili, che casualmente giravano sempre la testa.
Nessuno
mai si fece male. Dio esiste.
Punto di riferimento n.1 LORIS
Muoversi per noi era
costoso e non avevamo ancora la patente. Partì da Loris l’idea di ricorrere
all'autostop. Aveva letto un libro sull'argomento: Sulla strada.
Loris
è il gigante buono, il Kerouac di noialtri provinciali.
Ci
convinse alla pratica dell’autostop. Quando Loris ti abbracciava la testa
finiva sotto la sua ascella, era un abbraccio che veniva da un metro e
novantotto.
Era
il nostro aquilone senza filo, vedeva orizzonti lontani, libero da legami, ci
indicava la via, e noi lo seguivamo.
Non come docili pecorelle sia ben chiaro, non eravamo dipendenti da nessuno, ma da tutti sì.
Alcune tra le cose più belle furono sue proposte, alcune delle cose da lui proposte non furono mai fatte e non sapremo mai se avrebbero funzionato, come il faro appeso ad un filo per illuminare una scena del nostro teatro. Non sapremo mai se poteva funzionare e non cedemmo alle sue insistenze. Però inventammo una nuova parola ed una sindrome: la farite di Loris.
Non come docili pecorelle sia ben chiaro, non eravamo dipendenti da nessuno, ma da tutti sì.
Alcune tra le cose più belle furono sue proposte, alcune delle cose da lui proposte non furono mai fatte e non sapremo mai se avrebbero funzionato, come il faro appeso ad un filo per illuminare una scena del nostro teatro. Non sapremo mai se poteva funzionare e non cedemmo alle sue insistenze. Però inventammo una nuova parola ed una sindrome: la farite di Loris.
Si
scrive Loris e si legge pazzia, la pazzia fortunata, quella che riusciva, l’unico
che con due biglietti a una lotteria di paese vinse il primo ed il secondo
premio.
Le
fortune di Loris sembravano inesauribili, i passaggi in autostop erano
garantiti, anche se in alcuni casi preoccupanti.
Ad
esempio in Côte D’Azur: si fermò un furgone rosso e l’autista, un tipo magro,
sulla quarantina, in pantaloncini corti, sandali francescani e t-shirt, scese,
aprì il cassone e mi invitò a salire. Prudentemente estrassi la cartina e gli
mostrai la direzione che intendevamo prendere.
«Sex, sex» cominciò a
ripetere. Si scoprì poi che l’unica cosa che c’era di francescano in lui erano
i sandali.
Nella mappa non si
riusciva a trovare il posto, ma dopo un pochino di tempo, aiutato dallo
sfregarsi l’inguine che questo ormonato autista faceva, capii che “sex” non era
un luogo geografico.
«Loris, vieni qui che
il tizio ti vuole parlare»
Loris arrivò e salì nel
cassone. Chiusi il portellone e li lascia dentro.
Poco dopo il furgone partì
rombando, con il tizio che agitava le mani contro quei due italiani poco
disponibili. Anche se per noi la lingua francese non esisteva, il linguaggio
del corpo era chiaro, in particolare di alcune parti del corpo a cui il
linguaggio stesso era rivolto. Prima di partire l’autista del furgone aveva
aperto il portellone che Loris picchiava ferocemente da quando aveva
compreso che il luogo desiderato dall'autista non era nella mappa ma in lui.
Con
Loris era bello passeggiare.
Una
vigilia di Natale facemmo il pellegrinaggio di mezzanotte, dal paese alla
birreria dell’extraterrestre Gimmy, circa 10 chilometri di strada. Partimmo
alle 23, quando i fedeli, tutti belli eleganti ed impellicciati entrarono in
chiesa. Nelle chiese di provincia la messa della vigilia è una ghiotta
occasione per dimostrare il proprio status sociale di credente. C’è però il
sospetto che sia così anche nelle chiese di città.
A mezzanotte non eravamo ancora arrivati così ci fermammo sotto le stelle di quella silenziosa e fredda notte, in mezzo ad un incrocio, nel buio e nella nebbia.
A mezzanotte non eravamo ancora arrivati così ci fermammo sotto le stelle di quella silenziosa e fredda notte, in mezzo ad un incrocio, nel buio e nella nebbia.
«Tanto le macchine non
passano e ci ricorderemo di questi auguri» Aveva ragione Loris, siamo ancora
vivi per ricordarlo.
Arrivammo da Gimmy, a
bere le Guinnes alla spina, e poi arrivarono gli altri. Senza sms, senza
whatsapp, senza squilli. Non c’era bisogno di campo per vivere, ma di strade.
Gimmy
era il nostro posto, del resto non è che potessimo scegliere su infinite proposte.
Lì
incontravi l’apicoltore nomade e il legionario millantatore. Nei lunghi tavoli
sedevi in compagnia di perfetti sconosciuti e tutti rollavano qualcosa, a volte
anche tabacco. Appesi alle pareti c’erano strumenti musicali di vario tipo,
chitarre, sax, una batteria in un angolo. Qualcuno a volte staccava uno
strumento dal muro a cominciava a suonarlo.
Passò
anche il batterista degli Area e si mise alla batteria.
Potevi
ordinare le bruschette senza aglio, e Gimmy non te le portava, perché nelle
bruschette c’è l’aglio. Ordinavi le patatine fritte e mangiavi le patatine con
la buccia fritte nello strutto, si digerivano con calma, non c'era fretta in quel locale.
Una volta passò un ciclista, chiese un cappuccino. Quando si lamentò perché era troppo caldo Gimmy prese un boccale da birra e ci versò il cappuccino, il ciclista smise di lamentarsi.
Una volta passò un ciclista, chiese un cappuccino. Quando si lamentò perché era troppo caldo Gimmy prese un boccale da birra e ci versò il cappuccino, il ciclista smise di lamentarsi.
Da
Gimmy bevevi Guinness, nella sola maniera per bere questa birra, alla spina. Va spinata e servita nei suoi boccali tozzi e tondi, aspettando che la schiuma densa e marrone si formi.
La Guinness richiede pazienza, intanto digerivi le patate.
La Guinness richiede pazienza, intanto digerivi le patate.
Alla
cassa il conto era sempre una sorpresa.
«Quanto
pago?»
«beh,
stasera dammi 10 mila lire»
«ma
Gimmy, ho bevuto una sola birretta e piccola»
«hai
problemi?»
«no,
no» e pagavi, poi la sera dopo bevevi due birrone, mangiavi quattro bruschette
e tre patatine, andavi a pagare e lui
«se
mi dai una mano a chiudere offro io».
Tutti
abbiamo alzato le sedie sopra i tavoli e spazzato il locale. Gimmy era così,
prendere o lasciare, lui e il fratello Luca, bravi tosi, ma strani.
Camminare
con Loris era sempre un’avventura, non aveva importanza dov'eri, né che ore
fossero, che piovesse oppure no; l’imprevisto era sempre in agguato.
Oppure,
meglio, l’indole di Loris stimolava il destino a provocare delle reazioni,
lanciava il sasso nello stagno per creare i cerchi. Capitava a volte, e di
frequente, che si trattasse di liberare la tigre per poi cavalcarla.
Agire
così non era privo di conseguenze.
Passeggiando
con lui succedevano due cose: mentre parlavi e arrivava una macchina dietro di
te, capitava che Loris sfoderava il suo pollice e allora
andavi a caso, dove andava l’autista.
Una volta a bordo continuavi, senza preoccupazioni, i ragionamenti e la chiacchierata di quando stavi a terra. L’autista poteva andare ovunque, la meta non era l’arrivo ma il viaggio.
Un sabato d’estate ci stavamo annoiando.
«Chi
arriva per ultimo sotto la torre di Pisa paga da bere» disse qualcuno, e si
partì a coppie, io con Ivano. Applicammo il metodo del cartello con scritta.
Proposi di scrivere Pisa, mi pareva sensato, ma alla fine vinse l’idea di Ivano:
un punto esclamativo gigante. Non so perché, ma ci caricarono.
All'ultimo camionista dell’ultimo passaggio confidammo che era una gara e per vincerla bisognava dimostrare l’orario di arrivo, così si fermò, apri una scatola sotto lo sterzo e ci regalò un disco in carta con un grafico circolare dove si poteva leggere la velocità e le pause.
All'ultimo camionista dell’ultimo passaggio confidammo che era una gara e per vincerla bisognava dimostrare l’orario di arrivo, così si fermò, apri una scatola sotto lo sterzo e ci regalò un disco in carta con un grafico circolare dove si poteva leggere la velocità e le pause.
«Con
questo potete provare l’ora di arrivo» E fu così.
Si partiva affidandoci al caso e poi si tornava. Vivi. Tra noi ci sono piante che hanno l’asfalto tra le radici.
Oltre alla faccenda dell’autostop, con Loris capitava di incrociare sullo stesso marciapiede suore o donne anziane e timorose di Dio. E ciò non era bello, era la tigre che ti prende alle spalle.
Mentre
camminavi e le vedevi, cercavi di portare Loris sul lato opposto della strada.
Evitare a lui, a te e a loro di incrociarsi. Loris parlava serenamente di
qualsiasi cosa. Del tempo, di un libro, di una ragazza, parlava normalmente,
era sereno. Fino a quando loro, le donnine, arrivavano a portata di udito.
Allora il discorso cambiava, si inventava azioni erotiche fatte con ragazze
inesistenti, prodezze sessuali di fronte le quali Rocco Siffredi sarebbe
impallidito. Con dovizia di particolari e riferimenti corporali, minuziosi e dettagliati, dimostrava una conoscenza anatomica da laureato. Aggiungeva poi termini oltremodo scurrili.
Le gentili e clericali donnette lo ascoltavano loro malgrado, ed assumevano
espressioni e tonalità di colore cutaneo inverosimili.
Alcune
facevano il segno della croce, non rivolto a loro ma a noi.
Altre,
conoscendoci, cambiavano strada nel vederci. Nessuna mai ci sorrise, anche se Loris
insisteva nel dire che si capiva che scherzava. Ancora oggi abbiamo dei dubbi
sul fatto che capissero lo scherzo, e alcune anziane del paese ci guardano con sospetto
facendoci il segno della croce.
Loris
apprezzava cambiare punto di vista sul mondo, spesso ci invitava a casa sua,
dove aveva una grande mansarda accessibile con una scala esterna. Era in realtà
un appartamento, con ampie finestre sul tetto. Da queste finestre ci invitava
ad uscire ed a sederci sui coppi. Così, sdraiati sul tetto, si guardavano le
stelle di notte, oppure, di giorno, il passare delle macchine, dei ciclisti e
dei pedoni lungo via Roma. Si parlava immersi nella vita del paese e nello
stesso tempo al di fuori ed al di sopra, quasi il paese non ci appartenesse. In
quella casa mansardata sono nate storie, feste, discussioni, commedie.
Ascoltavamo musica, gli album di Bennato, Non
farti cadere la braccia, Sono solo canzonette, il preferito Burattino senza fili .
Quella
soffitta era uno spazio autogestito ed anarchico, che Loris, ed i suoi genitori,
accettarono di mettere a disposizione del branco selvaggio che eravamo.
Floriane,
la ragazza di Tolone, di lei e Loris un pochino bisogna parlarne.
Per
scrupolo non parlerò dei fatti accaduti nel del cimitero, ma solo che Loris è
molto ostinato e determinato nel raggiungere i suoi obiettivi.
Floriane
non era un suo obiettivo, ma conseguenza di un suo obiettivo. C’era una tappa
che voleva superare prima della maggiore età, lo fece con Floriane, una
simpatica, forse debole, ragazza che abitava a Tolone.
Era
in vacanza in Italia, nel nostro paese e per qualche motivo conobbe Loris.
Tutto andò nel migliore dei modi tra loro senza ferire nessuno dei due e
permettendo ad entrambi di ottenere quanto desiderato, senza conseguenze,
almeno per il momento.
Un
anno dopo Floriane tornò, con un bambino. Fu così che durante la permanenza di
Floriane, circa 15 giorni Loris fu introvabile, lo vedevamo sopra il tetto di
casa sua a tutte le ore del giorno, guardava la strada, le macchine passare, le
bici, i pedoni, e Floriane con il bambino. Tutti noi sapevamo che si trattava
del suo nipotino. Nessuno di noi però lo disse a Loris. A volte le tigri si
cavalcano dal tetto di casa.
Tutto
girava nel verso giusto, poi arrivò la notizia dell’incendio al cinema Statuto.
Potevamo scegliere se informarci nei telegiornali del primo o del secondo, e
basta. Il Biscione di Canale 5 arrivò poco dopo. Nei TG si parlava di morti
assurde e delle porte di sicurezza chiuse. Era chiaro anche a noi che bisognava
cambiare le regole, era giusto chiudere i luoghi pericolosi.
Che ci fosse anche il Lux tra questi luoghi però nessuno lo pensava.
Che ci fosse anche il Lux tra questi luoghi però nessuno lo pensava.
Era
il 1983, quell'anno al cinema del paese in cartellone c’era The Big Chill di Lawrence Kasdan, in
effetti era l’anno del grande freddo.
Ci trovavamo da Ivano
per scrivere, c’era tanta neve e non si muoveva nessuno.
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