Tempo libero n.2 AUTOMOBILI
Cominciarono ad arrivare le
patenti e con esse le macchine. La più usata dal gruppo fu la R4 di Loris. Era
la macchina giusta per lui.
Il cambio della R4 è a fianco del volante:
ruotando il polso verso sinistra e spingendo in avanti si innesca la prima.
Io avevo una Dyane 6 rossa, anch’essa con
il cambio a fianco del volante, solo che ruotando il polso a sinistra e
spingendo in avanti c’è la retromarcia.
Una volta soltanto guidai la R4 di Loris, inserii
quella che credevo essere la retromarcia e mi schiantai contro la macchina
parcheggiata davanti.
Correva voce che la R4 non perdesse mai di
stabilità in curva, neanche sterzando bruscamente ad angolo retto. Loris può
garantirvi che non è vero, lui lo collaudò capottando con la macchina.
La Dyane 6 era economica, spaziosa e
divertente, calda d’estate e fredda d’inverno.
Per evitare che la pioggia entrasse dentro
la macchina avevo aggiunto una piccola grondaia sotto il tettuccio, nel lato
posteriore. Sostituii i sedili davanti, che erano
rigidi, scomodi e non reclinabili. Comperai due sedili di una Simca 1000 da
uno sfasciacarrozze. Con l’aiuto di Pio forammo il telaio della Dyane e
agganciammo i sedili, imbullonandoli. Aggiungemmo un po’ di sicurezza
attaccandoci anche le cinture, visto che la Dyane ne era sprovvista
.
Una volta installati i sedili, bastava
tirare una levetta ed entrambi si ribaltavano con estrema facilità. Utile se
per caso si voleva fare un pisolino, magari in due. Rivestiti con copri sedili bianchi facevano
un figurone. La macchina superò anche la revisione,
nonostante le pesanti modifiche strutturali. Della Dyane 6 non funzionava il freno a
mano, una specie di manico da ombrelle che si doveva tirare verso i sedili
posteriori, ma il riscaldamento funzionava sempre. D’estate dovevo riempire di
stracci i condotti dell’aria calda.
Non correva molto. Una volta ci superò una
Fiat 127 guidata da quattro ragazze. Mi convinsero a seguirle, così accelerai
oltre le capacità della Dyane. La 127 non mollava e stava davanti a noi.
Ai 110 il tettuccio si aprì di scatto, noi, indifferenti, continuammo la corsa.
Ai 120 la guarnizione del tettuccio si staccò e ci sbatté in faccia. Ci
fermammo.
Organizzammo un capodanno in una vecchia
casa in montagna. Dietro la casa c’erano tre posti auto creati su tre
terrazzini di pietra alti circa un metro l’uno. Per raggiungerli bisognava
scendere una stradina. Dopo l’ultimo terrazzo c’era un dirupo. Fui l’unico a
parcheggiare su quei terrazzi, sul primo in particolare. La mattina dopo andai
a prendere la macchina, feci retromarcia e visto che ero in discesa decisi di
non fidarmi solo del freno a mano, e scesi per cercare una pietra da mettere
sotto la ruota. Ne avevo appena trovata una quando la Dyane si mosse e cominciò
a correre verso il dirupo. Misi il sasso ma la macchina lo saltò via sterzando
verso il secondo terrazzo. Lo saltò facendo un volo di un metro. Poi saltò
anche il terzo rimbalzando come un pallone. Cominciai a gridare e afferrai il
paraurti davanti trattenendo la macchina in bilico sul dirupo.
Uscì Capo, mi vide e vide la macchina che
lentamente scivolava verso valle. «Aspetta, aspetta che faccio una foto!». Per davvero andò a prendere la macchina
fotografica. Poi in tutti riuscimmo a sollevare la Dyane. L’unico danno fu alla
marmitta, che era diventata piatta. La tolsi con una pinza e tornai a casa,
rombando.
Anche Marco aveva la Dyane 6, ma azzurra.
L’indicatore del serbatoio era rotto, così girava sempre con una tanica di
benzina. Una sera si fermò lungo una strada, con Bigio. Presero la tanica, ma
non vedevano bene il buco del serbatoio a causa del buio. Poi cominciarono a versare
benzina. Bigio accese l’accendino per fare luce.
La tanica si incendiò, Marco si girò di scatto versando benzina su tutta la
fiancata e gettò la tanica su una siepe. La tanica scoppiò, la siepe
s’incendiò.
Partirono al volo con la fiancata in fiamme
che si spense col vento.
Da allora la sua Dyane era tinta di azzurro
da un lato e nera dall'altro. Bigio non salì più con Marco.
Poi c’era Fayo, al quale non serviva
parlare per farsi capire e portava sempre con sé un’intera contraerea
fantastica, montabile in 5 minuti e con dovizia di particolari, che mimava in
rapidità. Guidava la Prinz di suo padre. Chiamata Igloo per la sua accogliente
temperatura invernale.
Su tutti emergeva Bigio, soprannominato
il Villeneuve dei poveri con la sua Cinquecento blu e tracce di colori vari. La Cinquecento era ad accensione con
levetta a fianco del cambio e doppietta obbligatoria per le marce. La tecnica della doppietta era necessaria
sulle Fiat, dalla 600 fino alla 126. Si usava prevalentemente per il cambio marcia.
Si faceva così: frizione, colpo di acceleratore a vuoto, inserimento marcia ed
accelerata.
Quelli bravi la facevano in fretta e senza “grattare”, lui non
grattava, era il mago della doppietta. La prima doppietta la fece ancora con il
foglio rosa. La macchina era una 126 giallo canarino,
che mio fratello ci aveva prestato a sua insaputa. Bigio guidava con me al suo
fianco. Uno dei due sudava, e non era quello al volante.
Bigio fece una doppietta meravigliosa
scalando le marce per parcheggiare lungo il viale dei tredici cipressi del
cimitero. Da allora il viale è dei dodici cipressi, ma la doppietta fu
memorabile.
Una volta il cambio si ruppe: girava solo
in terza. Cambiammo autista e l’auto fu affidata a Fayo, il più audace tra noi.
Organizzammo due auto pattuglia con lo scopo di bloccare gli incroci, le
rotatorie non erano ancora state inventate. Arrivati agli incroci qualcuno
scendeva di corsa bloccando le corsie, tutti si fermavano curiosi in attesa di
vedere cosa succedesse. Rombando alla massima velocità possibile,
per una Cinquecento in terza, Fayo arrivava sgommando e correva oltre, subito
inseguito dalle due auto civetta, tra le invettive degli altri scioccati automobilisti
costretti alla sosta.
Bigio uscì di strada varie volte, una
volta anche a carnevale, vestito da giullare.
I soccorritori videro il viso bianco, e
pensarono fosse svenuto, lui si girò, videro il viso rosso e pensarono di
svenire. Con la bella cugina triestina, si schiantò
a bordo strada, donandole in ricordo un piccolo sfregio su quel volto
incantevole.
Ruppe i freni e spinse la macchina di un
amico oltre lo stop, ma lui si fermò giusto sulla riga, il suo amico addosso un furgone che passava.
Per salutare un amico parcheggiato a bordo
strada, volle avvicinarsi alla sua Dyane 6 e rigò tutta la fiancata della
macchina ferma. L’amico lo accolse molto festosamente.
Corre voce che la sua macchina fosse fatta
di una parte di lamiera, una di stucco da carrozziere e una di cartapesta.
Ma tutto venne interrotto dall'arrivo delle cartoline gialle. Lo Stato si accorse di noi.
Teatro n.2
Il nostro magnifico mondo incantato, fatto
di feste, viaggi e palcoscenico, esisteva parallelo a quello reale. Erano due
distinti universi, non in contrasto e neanche in opposizione. Quasi due stanze
attigue della stessa casa. Ci muovevamo con indifferenza passando da una all'altra senza mai pensare che, un giorno, una delle due porte si
sarebbe chiusa. Il mondo reale indugiava su di noi, ma
sempre più spesso inviava dei messaggi.
La realtà ci spedì, attraverso il
ministero della difesa, delle cartoline gialle. Con l’effetto di deprimere alcuni.
Per superare la depressione della chiamata,
Gnagno e Fayo si ritirarono in meditazione, in un appartamento di Gnagno, al
mare. Invitarono anche me.
Il mare d’inverno, secondo Loredana Bertè,
è romantico, secondo noi d’autunno è triste. Arrivammo muniti di sacchi a pelo.
L’appartamento era senza mobilia e senza riscaldamento, ma c’era l’acqua, la
corrente elettrica, una lampadina. Rimanemmo lì un po’ di giorni. Parlavamo tra noi, sbranavamo polli allo
spiedo con le mani, accampati sopra fogli di giornale per non sporcare la
moquette. Cercavamo di superare la malinconia.
Il mio compito era quello di
supporto, la naja non mi riguardava, per il momento: avevo fatto domanda di
obiezione di coscienza.
Anche Ivano e Bigi fecero domanda, ma le
loro famiglie, con garbo, li convinsero a ritirarla. Ivano si ritrovò aviere. Si poteva
riconoscere l’angolo della camerata dove dormiva anche da fuori della caserma.
Sul suo balcone approfondì gli studi di erborista autodidatta dedicandosi alla
piantagione in vasetti di erbe aromatiche. Di una in particolare, a dire il
vero.
Il destino di Bigi fu diverso. Fosbury, nel 1968 insegnò una tecnica di
salto che Bigi scoprì essere adatta a lui. Quindi passò la naja allenandosi, da
sdraiato. Quando toccava a lui saltare, si alzava, correva e con un bel Fosbury
superava l’asticella. Alla fine non rimpianse molto il mancato servizio civile.
Ci chiesero un nuovo spettacolo.
Accettammo, anche perché Ivano confidava
nel fatto che la naja la stava facendo vicino a casa. Così si fece. Provavamo
da Loris, allestimmo un insieme di gag e parodie. Per la serata della prima tutti i militi
tornarono in licenza e salirono sul palco. Dato che il Lux era chiuso, non si sapeva
bene dove recitare, visto che era inverno, ma arrivò un circo.
Un piccolo circo a conduzione familiare, dove
il cassiere diventa clown, poi giocoliere, poi mago ed infine acrobata. La
moglie era domatrice di un pony, di un cane e di una capra. La figlia passava
negli intervalli a vendere da bere, poi con il pony a farlo cavalcare dai
bambini, e poi con un grande pitone albino a fare le foto con la polaroid. Ci furono molti intervalli, ed ogni cosa
aveva un prezzo.
Erano artisti girovaghi e vivevano alla
giornata, così accettarono volentieri l’affitto per una sera, probabilmente
guadagnandoci.
Lo spettacolo iniziò con Ivano e due
palline da ping pong. Nessuno sapeva cosa avrebbe fatto, così lui lo fece.
Lasciò cadere le palline che rimbalzarono sul palco poi caddero.
«Mi sono cadute le palle» furono le sue
prime parole.
Il presidente della biblioteca le raccolse,
con il sospetto di essere caduto in un tranello. Recitare in un circo è strano,
non hai la gente davanti, ma dappertutto, devi girarti e agire per tutti. Per
cambiarci i costumi dovevamo uscire dal tendone, entrare in un torpedone che
per metà era senza sedili. C’era una lampadina appesa in mezzo a quella strana
corriera, e con quella poca luce ci arrangiavamo. Legato davanti al torpedone
un cane lupo faceva la guardia. Era abituato ai circensi e considerava noi
degli intrusi o dei ladri, forse il suo pasto. Abbaiava ferocemente ogni volta
che salivamo e scendevamo dalla corriera. Alla fine fu utile come segnale l'arrivo degli attori per il presentatore.
Gnagno e Fayo erano in licenza, così li
inserimmo nella scena finale: una parodia di Cenerentola. Gnagno fece Cenerentola al ballo, vestito
azzurro, parrucca nera e occhiali da sole, Fayo il valletto del principe, Capo il principe. Dopo
il ballo il principe triste con in mano uno scarpone anfibio cercava la sua
principessa. Nel farlo si faceva aiutare dal valletto. Con una carriola i due
passarono tra la folla requisendo le scarpe al pubblico. Alla fine svuotarono
varie carriole sul palco e finì così, tra l’imbarazzo di
tutti.
Evitammo il lancio di scarpe e costringemmo il pubblico a frugare sopra
il palco tra le scarpe di sconosciuti, un successo.
Gli amici erano felici per noi, alcuni, ad
esempio mio fratello Giannino, davano suggerimenti, erano contenti e divertiti,
in qualche modo volevano partecipare.
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