L’obbedienza non è mai una virtù
I responsabili del Lux si impegnarono anche a fornire un
servizio di cineforum scolastico per la sezione staccata della scuola professionale
Almerico Da Schio.
Poiché tutti gli operatori erano pure studenti, per
proiettare i film era necessario bruciare scuola.
In pratica ci istigavano a delinquere.
Venne proposta la proiezione del film Gandhi, con uno strepitoso Ben Kingsley
molto prima che i suoi geni impazzissero, facendolo diventare il potente Professor
Xavier.
Il film durava tre ore e un quarto. Venni incaricato di
proiettarlo da solo per quattro volte, nessuno poi si sorprese quando decisi di
fare domanda come obiettore di coscienza.
La quarta proiezione del film coincise con l’ultimo
giorno di vita del mio impermeabile nero dagli strani riflessi.
Gli studenti preferivano stare in galleria, io invece,
conoscendo il film perché già visto più volte, decisi di sedermi in platea. Al
tempo c’era già la macchina che per proiettare non usava più i carboni, ma una
lampada: non serviva più aggiustare lo scorrere dei carboni.
Una volta fatta partire la pellicola, scesi dunque in
platea, ma dimenticai di chiudere la sicurezza che bloccava la ruota inferiore
dove si avvolge la pellicola.
Nel corso della proiezione, nel silenzio di una scena, si
sentì un gran fracasso in sala proiezione, poi un rumore di tessuto strappato
dalla platea, accompagnato da molte esclamazioni pittoresche, e poi un correre
sulle scale verso la sala di proiezione.
La pizza inferiore si era sganciata con gran fracasso, io
ero saltato in piedi, senza accorgermi che un bracciolo della poltroncina si
era infilato nella tasca dell’impermeabile: lo scatto causò lo strappo di tutto
il lato sinistro della giacca, dalla tasca alle ginocchia.
Intanto, in sala proiezioni, c’era il disastro: la
pellicola continuava a scendere senza potersi avvolgere, e si infilava ovunque come
un nero e piatto serpente lunghissimo.
Lo spirito ribelle diffuso nel gruppo selvaggio, unito all'impegno sociale, causarono anche un effetto collaterale. E ci mise lo
zampino anche Don Milani, con L’obbedienza
non è più una virtù.
Cinque furono le domande di obiezione di coscienza, gli
obiettori del gruppo furono tre.
Capo in un paesetto di montagna, Loris in Toscana, io in
provincia di Milano, per Mani Tese.
Ivano e Bigi, invece, su cortese ma ferma richiesta dei
rispettivi genitori, ritirarono la domanda.
Per Ivano in particolare fu un duro colpo, la temuta ma
ignorata realtà piegò il suo volere, costringendolo ad indossare una divisa. Forse per questo affinò le sue conoscenze di erborista.
Essere obiettore a quei tempi era dura, facevi 20 mesi.
Una volta presentata la richiesta, venivi contattato e
sottoposto ad interrogatorio dai Carabinieri.
«Lei cosa farebbe se, con una pistola in mano, trovasse a
casa un ladro che ha ucciso sua madre, suo padre ed i suoi fratelli?»
«Lo sa che in caso di guerra gli obiettori vengono usati
per recuperare i feriti dopo gli scontri? Anche se ci sono le radiazioni
atomiche?»
Non eravamo simpatici ai Carabinieri, il curioso è che
simpatici non lo eravamo nemmeno al parroco, nominò in una predica i tre
obbiettori del paese: «Tra noi ci sono persone che hanno deciso di non
interessarsi alla nostra patria, di non difendere i suoi valori».
I genitori dei sovversivi cominciarono azioni di pressing
per demolirne il desiderio.
Mio padre, alpino, aveva costruito una cappelliera per
metterci sei cappelli alpini: iniziò con il suo, e con quello del primogenito;
poi venne la serie dei tre cappelli da aviere.
Alla fine la cappelliera sparì: gli obbiettori non
portano divise.
Mi auto precettai e partii.
A Gorgonzola, in provincia di Milano, lavoravo per Mani
Tese.
Spiegavo il mio lavoro in una orrenda battuta: «a
mezzogiorno mangio la pastasciutta con le mongole
e al pomeriggio prendo il tè con gli spasticcini».
Passavo molto tempo con i ragazzi disabili di una comunità.
Mangiavo e giocavo con loro.
Lì conobbi Giorgio, idrocefalo, cieco e in sedia a
rotelle. Aveva il terrore dei cani perché li sentiva abbaiare. Un giorno portai un cane lupo, docile, che viveva in un recinto
vicino a dove dormivo, un poco alla volta Giorgio si avvicinò e lo accarezzò.
Non ebbe più paura dei cani.
A Gorgonzola avevo a disposizione tre stanze, più una
specie di angolo cottura in mezzo a scaffali di materiale vario raccolto per
essere spedito. Nel bagno c’era un lavandino di 30 centimetri, una vasca
di un metro con la seduta e una camera con due letti. Trovai un mangiacassette
con la cassetta Robinson di
Vecchioni.
Una volta mi diedero della pasta in scadenza da mangiare,
le microstelline per i neonati: condite con burro e gorgonzola non erano male.
Alcune sere venivo invitato a mangiare in casa di alcuni
amici che avevo conosciuto lì, come Muscolo e Fiorella. Mi piacevano i loro cognomi, li trovavo buffi, immaginavo
il signor Fumagalli mentre si accendeva un galletto. Poveri pennuti accesi e
aspirati. Ma il cognome che preferivo era Scaccabarozzi: cosa
fossero i barozzi non lo so, e perché si scaccassero non l’ho mai capito.
Poi arrivò Erter, scappato da una comunità di tossici. Lo
misero al mio fianco e successe di tutto, anche cose brutte, parecchio brutte. Scoprii il
lato oscuro della droga, e di come fosse difficile riuscire a domare il demone. Fui vittima delle mille astuzie messe in atto da Erter
per riuscire a sballarsi.
Dove dormivo c’era anche il deposito dei farmaci da
spedire per i vari progetti: lui cercava farmaci da mischiare con il vino o i superalcolici.
Una volta lo trovai steso a letto, pallido e rigido, non
riuscivo a svegliarlo neanche a sberle. Chiamai aiuto e arrivò il responsabile
di Mani Tese. Era un buon uomo imponente, sembrava un babbo natale che si fosse
mangiato tutte le renne, da quanto era grande e grosso.
Arrivò, vide Erter steso, prese un secchio d’acqua, glielo
rovesciò addosso, poi lo colpì con degli schiaffi che a me avrebbero fatto
svenire. Invece Erter si svegliò. Dopo una lunga e accesa chiacchierata uscì dalla nostra
stanza, dando un calcio alla porta, scardinandola. Il giorno dopo la porta era
riparata ed i medicinali spariti.
Un altro lavoro da fare era svuotare le case dei morti se i familiari ti chiamavano. Recuperavamo vestiti di buona qualità per spedirli.
Capitò un morto che aveva la mia taglia, nel suo armadio trovai delle belle giacche. Durante il lavoro una sveglia quadrata di plastica rosa a pile sopra il comodino si mise a suonare, la povera vedova la spense ed uscì dalla camera invitandomi a portare via tutto: in quel periodo giravo con una bella giacca nera in lana della Marzotto e una sveglia rosa in tasca, non avevo l’orologio e per ricordarmi gli appuntamenti ed era pratico programmare la suoneria della piccola sveglia. Purtroppo le scarpe del morto erano troppo grandi per me, peccato perché erano dei bei mocassini.
Arrivavo a Gorgonzola la domenica sera, in treno, e tornavo il venerdì in autostop, 210 chilometri.
Una volta mi scaricarono a sei chilometri da casa. Mentre facevo l’autostop, passò mio padre con la sua 127 bianca. Suonò, mi salutò e andò a casa, senza caricarmi.
Per un breve periodo arrivò anche un’altra persona, un
clandestino in cerca di lavoro.Andavamo a bere il caffè in una cascina che vendeva
prodotti biologici.
Con le tazzine davanti il barista mi guardò, muto ed
intensamente, stavamo ascoltando il litigio tra Erter e il clandestino: litigavano
sul diritto di rubare le autoradio, spettava di più ai tossici o ai
clandestini? Per iniziare i venti mesi di obiezione mi auto precettai,
dopo il caffè mi auto congedai, unico caso in Italia.
Capo serviva i pasti e si occupava degli anziani isolati
nel piccolo comune di montagna dove prestava servizio. Aveva una casetta da
condividere con altri obiettori. Visse lì per venti mesi e ingrassò di venti
chili.
Loris prestò servizio con la Croce Rossa di un paese, in
Toscana. Un giorno arrivarono sul luogo di un incidente mostruoso tra un camion
e un furgone, dai cespugli attorno spuntavano moncherini di gambe. Nell'ambulanza, insieme all'autista del furgone, caricarono
anche Loris, svenuto.
Le gambe comunque erano finte,
il furgone trasportava un campionario di calze da donna.
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