Teatro n. 3
'Na Sgresenda Nel Cuor
Poi arrivò la seconda capra, di nome
Frank.
Non era femmina, ma maschio, e di
professione regista.
Nel 1946 Frank Capra diresse It’s a
Wonderful Life, La vita è meravigliosa.
Vi si narrano le vicende di
un angelo di seconda classe, Clarence, che per conquistare le ali deve salvare
un’anima perduta.
Il nostro angelo si
chiamava Celestino Daddio e aveva due aiutanti: i menestrelli del tempo Crono e
Metro. L’anima perduta, e perduta parecchio, era Leopoldo Scortegagna.
Fayo e Gnagno, erano tornati
dalla naja, ma Ivano continuava ancora a coltivare le sue pianticelle, e Bigi a
saltare. Al ritorno però non erano più interessati al teatro: Ivano stava
scivolando in un mondo criptico di anarchia e chiusura e si stava allontanando
da noi e da tutto, Bigi lo seguiva in silenzio.
Ci eravamo costruiti dei
ruoli ed ognuno di noi aveva una maschera che indossava quando entrava nel
gruppo. Servivano coraggio e carattere per sfilarsi dal personaggio ed essere
se stessi.
Il gruppo si era ridotto
per normale evolversi della vita, rimanevano i più convinti e appassionati.
Si provava da Loris, in soffitta, quasi ogni sera, senza copione, solo tracce ed idee.
Si provava da Loris, in soffitta, quasi ogni sera, senza copione, solo tracce ed idee.
Io ero ancora in servizio
di obiezione, quindi mi fu affidato il compito di inventarmi dei monologhi da
usare per interpretare Celestino Daddio, ruolo di giunzione tra una scena e
l’altra. Nessuna prova assieme fino al debutto.
Leopoldo Scortegagna,
perno attorno al quale si creò la serie di eventi, fu affidato a Capo, mentre
tutti gli altri continuavano a ruotare, cambiando personaggi.
Tutte le scene si sviluppavano
attorno alla trama elementare: costringere Leopoldo alle nozze per permettere
all’angelo di ottenere le ali di prima categoria.
Dopo aver svernato nella
soffitta di Loris, chiedemmo di poter usare il Lux anche se chiuso.Ci diedero una chiave, entrammo
da una porta laterale: fu come tornare a casa.
In un angolo, con alcuni
pannelli bianchi, ricavammo un luogo raccolto illuminato da un faro al neon
procurato da Fayo, che quando disse: «è antiscoppio, così non ci succede
niente» ci fece preoccupare tutti.
In mezzo, una cassa da
spedizioni dipinta di nero, alle pareti manifesti vari. Come sedute, delle
panche. In quell’angolo si
discuteva, si parlava, si mangiava e si beveva, poi si saliva a provare sul
palco alla luce di un paio di fari.
Eravamo da soli nel
teatro vuoto e scricchiolante.
Raramente passava Ivano a
salutare, ma era disinteressato e non partecipava alla nostra follia creativa,
forse perché cominciavamo ad avere degli schemi, a seguire un ritmo ed una
logica teatrale contraria al suo spirito folle e visionario.
Sopra il
palco allestimmo anche la scena, ignifuga a modo nostro: una struttura in ferro
con delle tende, gli oggetti recuperati ovunque, un letto, un comodino, una
panchina e altre piccole cose.
Trovare un manichino fu
complicato, ma ci riuscimmo.
Il manichino femminile era
indispensabile per la scena in cui Leopoldo entrava da un sarto per cambiare l’abito
strappato in una rissa, ma a causa della sua miopia scambiava il manichino per
una procace signora.
Il manichino veniva
spogliato dal sarto per mostrare i vestiti al suo cliente Ugo La Tocca e Leopoldo
si illudeva che la procace signora volesse sedurlo, spogliandosi.
Discutemmo a lungo su
quanti capi si dovessero sfilare per non scivolare nella volgarità, si crearono
due fazioni: nudo integrale oppure mutande e reggiseno. Alla fine non togliemmo
più neanche la gonna, qualcuno aveva disegnato un pube osceno al manichino.
Una delle scene più
divertenti era ambientata da un barbiere vagamente fascista, Gino Forbeseta, il
quale apprezzava il suo garzone muto, Elia, assunto per il nome.
Gino lo chiamava continuamente
Elia Elia Alalà, minacciando di
fargli bere l’olio. «Vogliamo fare i
furbi? Vogliamo fare le comiche? Giochiamo a Stanlio e Olio?»
Queste erano alcune delle
battute, e funzionavano.
La scena era giocata al
ritmo di musiche generate dalla radio, ritmo che condizionava i movimenti degli
attori. Con garbo, i due facevano
accomodare Leopoldo sulla poltrona e gli legavano al collo il telo rosso da
barbiere.
A tempo del Sirtaki di Zorba, il povero Leopoldo veniva
schiumato in modo sempre più frenetico, poi, al ritmo dell’Estate delle Quattro
Stagioni di Vivaldi, Gineto Forbeseta e il suo aiutante Elia venivano posseduti
da rasoio e forbici e mentre tentavano di avventarsi su Leopoldo questi scattava
in piedi spegnendo la radio.
«E adesso calmiamoci con
una musica rilassante» diceva Leopoldo, sintonizzando la radio su una stazione
di musica tranquilla.
Purtroppo per lui il dj
cambiava di colpo genere proponendo El
gato montes, eccellente e veloce paso doble da corrida spagnola: Leopoldo
balzava in piedi con il telo rosso in mano mentre Gineto Forbeseta diventava il
toro ed Elia saltava sopra la sedia da barbiere incitando alla corrida.
Alla fine Gineto toro
stramazzava al suolo ed Elia, repentinamente dotato di parola, esclamava «matalo,
matalo».
Leopoldo chiudeva allora con
un «mato sì, mati tutti e due!» uscendo quindi tra fragorosi applausi.
Nelle altre scene si
incontravano vari personaggi: l’ubriacone Toni Potrella che girava le osterie
alla ricerca di sua moglie; l’investigatore Verza con l’allampanato Pisello,
dall'impermeabile stile Humphrey Bogart in Casablanca; oppure un demoralizzato
barista che proponeva improbabili cocktail, per ritrovarsi a vendere solo ombre.
L’esordio si tenne nel
cortile del consorzio.
Estate, un palco e le sedie
di fronte, tante sedie, sedie con il telaio in ferro e la tela, affittate da
una Pro Loco. Iniziammo lo spettacolo.
Ma arrivati a un certo
punto, durante la recita, cominciammo a vedere gente che si schiantava per terra.
Non capivamo bene perché, finché non crollò uno in prima fila e capimmo: le
sedie in tela erano rimaste piegate per molto tempo, e alcune si erano rovinate
e si strappavano nella piega, facendo rovinare a terra chi c’era seduto sopra.
Verso il fondo poi ci fu
un po’ di scompiglio, una donna incinta aveva rotto le acque; si alzò insieme
ad alcuni amici e andarono via insieme ridendo come matti.
Alla fine anche gli altri
spettatori uscirono ridendo, ma senza partorire.
Lo spettacolo andò bene, molto
più di quanto sperassimo.
Iniziarono a chiamarci in
giro, arrivarono anche articoli e recensioni: “Parlare di pienone per questo primo appuntamento della rassegna Fuori
Porta starebbe all’effettiva presenza di pubblico come la definizione di
acquazzone al Diluvio”, nello stesso articolo il critico Jacopo
Bulgarini d’Elci si dimostrò molto arguto scrivendo: “chi conosce i Monthy Python, mitico gruppo inglese, troverà nei Nostri
uno stile non dissimile”.
Alcuni critici
osservarono una regia carente, ma si sbagliavano: la
nostra era una regia assente, non avevamo né regista né testi scritti e non
potevamo dirlo perché nessuno ci avrebbe creduto. Questo garantiva originalità
ai nostri spettacoli, ma un leggero nervosismo agli attori.
Una volta il nostro Comune
ci diede un contributo, noi non avevamo richiesto niente e l’arrivo di soldi ci
sorprese.
Decidemmo di accettarli e di usarli per finanziare un progetto di Mani Tese.
Spedimmo all'assessorato una busta di ringraziamento con la ricevuta del versamento fatto. Non arrivarono più contributi.
La nostra comicità
funzionava, dove andavamo la gente arrivava sempre numerosa.
Ci capitò anche una replica
in un istituto per malati mentali, era una giornata di apertura alle famiglie e
invitarono noi per animarla: ci sentivamo a casa nostra.
Entrando per montare la
scena un simpatico signore ci avvicinò uno alla volta e chiese a tutti dei
soldi. Fayo, che arrivò per ultimo, venne informato, e quando il signore gli
andò vicino Fayo lo anticipò dicendogli: «scusa, hai un po’ di soldi?» Il tizio rispose «non
sono mica matto io!» lasciandoci perplessi.
Da dietro la scena
guardavamo il pubblico, scoprendo una donna che cullava una bambola, un signore
che fumava una sigaretta al contrario continuando a scottarsi le labbra, un
altro che palpeggiava la sua vicina senza che questa reagisse in alcun modo e
degli altri che ridevano. Erano i famigliari.
Poi Capo si sedette dal
barbiere e la sedia si ruppe. Rimase incastrato e non sapendo come uscirne si
mise ad imitare un pilota di formula uno, ingranando marce inesistenti, uscì di
scena tra gli applausi, lui e la sedia.
Sul palco il barbiere e
l’inserviente rimasero soli.
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