PARIGI
“Homo Ridens che successo, i nostri studenti vincono due
festival, a Digione e alla Nouvelle Sorbonne”
Titolava così l’articolo di Sabrina Tomè. Per accedere a quei festival
bisognava che fossimo studenti. In realtà un nostro amico lo era, Mamo, leggermente
fuori corso, ma ancora iscritto al Bo di Padova. Era l’unico studente del
gruppo.
L’idea fu di Loris, manco farlo apposta.
La prima volta andarono in sordina lui e Mamo, non fu una brutta
esperienza, anzi, arrivarono secondi con una gag muta sulla guerra e sulla
pace: due soldati di opposti fronti si sfidavano in un duello senza armi; ognuno
tentava di sopraffare l’altro, alla fine decidevano che vivere in pace era meno
faticoso che farsi la guerra.
Il colpo di genio arrivò l’anno dopo: Loris, Gnagno, Fayo e Lucio
costruirono una serie di gag che si ripetevano seguendo uno schema musicale
composto da pezzi di canzoni e di rumori, le situazioni orchestrate sulla base
dei suoni registrati.
Con caparbietà e determinazione continuarono a provare, cercare e
mischiare musiche e gag, fino a costruire una gag unica di dieci minuti – il
tempo massimo consentito – dal ritmo sostenuto e ricca di imprevedibili
variabili. Registravano i rumori con un registratore a cassette, alcune musiche
le ricavò Loris modificando la presa scart di un videoregistratore VHS. Alla
fine ci riuscirono e cominciarono a provare.
Gnano, Fayo, Ciano, Loris, Kate, Lucio e Mamo si trovavano a insaputa
del resto del gruppo. Una sera ci chiesero di poterci mostrare la gag: fu una
visione. In quei dieci minuti c’era condensato il lavoro del nostro gruppo, l’essenza
della nostra comicità, l’assurdo dei personaggi, la mimica, il tempismo, il
paradosso e la semplice ingenuità dei bambini, era perfetto.
Si propose di chiamarlo Alluxinati, e non poteva che essere
così, perché erano effettivamente degli allucinati quelli che si muovevano
nella scena e perché, e questo lo sapevamo solo noi, al Lux sì nati era
riconoscere le nostre origini, visto che al Lux siamo nati.
“Che relazione abbiano
due detectives alla Peter Sellers, un duro e due innamorati,
la musica della Pantera Rosa, quella di Braccio di Ferro, il Sirtaki e una
marcia funebre, gli Homo Ridens lo raccontano dal palco con una serie di
imprevedibili, demenziali cambiamenti di gesti e di situazioni.”
Così arrivarono a Digione. E vinsero, vinsero anche
a Parigi. Comparve anche un articolo su Le Figaro, ma sbagliarono foto. Almeno evitammo che lo attaccassero in tutto il paese.
Non solo arrivarono primi nella loro categoria ma vinsero anche il
festival, vinsero alla grande, molto alla grande. Così andarono come ospiti a Casablanca
e in Belgio.
Con queste vittorie un pochino ruppero gli zebedei
al resto del gruppo che era a casa.
Non perché si vantassero, ma consideravano
quei dieci minuti come il massimo di quello che avevamo prodotto, e non una
delle conseguenze delle fatiche fatte.
Spettava di diritto ai vincitori ritornare anche l’anno dopo. Capo ed
io ci aggregammo al gruppo parigino. Loris propose una nuova scena, sempre su
base musicale, ambientata in un museo. La scena terminava con lo scoppio di una
bomba, la miccia della bomba era fatta con i bastoncini che si usano da bambini
per fare le scintille.
Arrivammo a Parigi, dove eravamo ospitati in un appartamento, un po’
spartano, ma andava bene.
Il teatro era bellissimo ed enorme, giovani di tutta Europa si
proponevano in varie discipline artistiche: ballo, musica, teatro impegnato e
teatro comico. Avevamo a nostra disposizione tecnici e truccatrici e ci
chiesero di farli lavorare, per loro era una specie di stage.
Il primo giorno provammo la scena, la miccia della bomba si spense
addosso al maglione in pile nuovo che mi era stato regalato per l’occasione,
incendiandolo, con grande sofferenza mia e molto stupore e risate di tutti gli
altri, francesi compresi.
Terminate le prove visitammo Parigi in libertà, Ciano e io decidemmo
di organizzare una visita al Museo d’Orsay per la mattina dopo. Volle
aggregarsi Capo, lo aspettammo per un paio d’ore: eravamo soli in biglietteria,
poi arrivarono pullman di turisti, alla fine entrammo nel caos totale.
Al ritorno, in metropolitana, vidi Capo: era di fronte a me e io cominciai
a fargli dei gestacci mandandolo in varie parti del mondo e in luoghi anatomici
noti.
Purtroppo alle sue spalle c’era un imponente ragazzo nero, che
fraintendendo il mio gesticolare intese rivolte a lui le offese. Si alzò e con
passo deciso venne verso di me. L’ultima cosa che vidi saltando fuori alla
fermata del metrò fu la faccia sorridente di Capo che mi salutava agitando la
mano. Mi toccò correre in mezzo all’enorme mercatino delle pulci cercando di
disperdere il tenace e inferocito sconosciuto.
Per fortuna arrivò la sera dello spettacolo.
Tutti ci trattavano come fossimo attori veri, i fotografi ci
chiedevano di metterci in posa, poi stampavano le foto e le incollavano su
grandi pannelli, tutti parlavano con tutti in una frenesia di emozioni.
Noi guardavamo i nostri amici che si comportavano come veterani, gli
organizzatori li conoscevano e li trattavano con il riguardo dovuto a chi ha
già dato dimostrazione delle proprie capacità.
Eravamo a Parigi e ci consideravano attori.
Venivamo da uno sperduto paese di provincia, dove facevamo le prove
dentro a un consorzio agrario rubando la corrente agli stradini del paese; se
lo avessero saputo, i nostri cugini d’oltralpe, chissà cosa avrebbero pensato
degli acteurs italiens.
Alla fine ci accomodammo per il trucco, ci rifecero gli occhi
marcandoli di nero, lisciarono il volto per eliminare le imperfezioni. Al mio
fianco una bella e procace ragazza francese si fece truccare il volto, poi
chiese se potevano sfumare il colore del viso verso il decolté. Forse non
intesero bene, oppure la truccatrice fu presa da eccessiva foga, senza
preavviso le tirarono giù il vestito fino all’ombelico esponendo il suo seno
alla curiosità dei presenti. Lei, presa alla sprovvista, non sapeva come
reagire mentre la truccatrice le pennellava il decolté per sfumare la tinta.
Con vissuta indifferenza mi limitai a sorriderle guardandola solo negli occhi.
Lei virava verso una tonalità rosso cardinale.
Arrivò il nostro momento, ci
venne a chiamare un assistente di scena con tanto di cuffietta, come un
bodyguard, e un registro in mano, proprio come nei film.
Il festival iniziò con l’ingresso in scena di un presentatore in tutù
bianco, il quale iniziò a presentare il concorso, ma poi gli cadde il testo che
aveva in mano, si inchinò, spalle al pubblico, per raccoglierlo, mostrando il
deretano all’intera sala. Tutta questa scena serviva per permettergli la battuta
«Mon
Dieu, tout le monde a vu mon âme».
Le Festival Eurepéen de Cafe-Theatre iniziò
così: con un culo in faccia al pubblico.
In
realtà le scene presentate dai partecipanti delle varie nazioni erano molto
belle, alcune un poco splatter, come quella di un gruppo inglese: per la loro
scena rivestirono il palcoscenico di nylon e si versarono addosso barattoli di
colori, lordandosi tutti. Poi arrivò il nostro turno.
Ai bordi del palco assistemmo alla presentazione del gruppo italiano:
due ragazze entrarono in scena passeggiando, arrivò una Vespa Piaggio con a
bordo due loschi figuri i quali si affiancarono alle tipe e le scipparono della
borsa. Fu un pugno allo stomaco per tutti noi. Questi nostri cugini d’oltralpe,
i nostri ospiti, che ci avevano invitato, e che ci facevano le riverenze,
avevano ideato per gli acteurs italiens
uno scippo come presentazione; non solo, dopo lo scippo entrò un calciatore,
truccato da Maradona, che attraversò il palco palleggiando con in sottofondo il
tifo di uno stadio. L’Italia per loro era questo: scippo e calcio.
Avrei voluto andare a casa, oppure dalla tipa francese col decolté in
sala trucco, e non le avrei più guardato solo gli occhi.
Toccava a noi, ma questa presentazione ci aveva confuso e non andò
benissimo. Alla fine arrivò il momento di spegnere la miccia, ma purtroppo
avevo scordato lo straccio bagnato, ero distratto e arrabbiato. Decisi, in un
impeto di rabbia e ferocia, di spegnere la miccia a mani nude, lo feci e mi
ustionai, ululai, ma dentro di me e silenziosamente.
Cominciarono a chiamare i vincitori, in francese ovviamente.
A ogni chiamata i veterani del gruppo facevano finta di alzarsi, Capo
e io saltavamo su come caprioli.
Non vincemmo niente.
Durante le sere che rimanemmo a Parigi si
organizzavano spettacoli in vari teatri, per la prima volta vidi le gare di
improvvisazione teatrale, in francese, tradotte da Fayo.
Scoprii così quanto sono volgari i francesi, almeno
secondo la traduzione che mi era stata fatta.
Alla fine del festival si teneva una festa nella
quale tutti si ritrovavano per stare in compagnia, tranne Mamo che preferì
andare a casa a dormire. Ma ritornò dopo un’ora: riconoscemmo la sua silhouette
in controluce, con camicia, cravatta e posa plastica.
Uno degli sponsor della serata era il liquore Baileys, Capo ne nascose
un paio di bottiglie dentro la sua borsa come risarcimento.
Le bottiglie arrivarono fino a casa sane e salve, superando il viaggio
in metropolitana e in treno.
Quando scese alla stazione di Vicenza però Capo lasciò cadere la
borsa:
«Italia
Mon Amour».
Così il piccolo trofeo si ruppe, impregnando del denso liquore tutti i
vestiti, con grande soddisfazione di Ciano e mia.
Ormai ci conoscevano bene, anche in S.I.A.E., dove ci capitò spesso di
andare perché a volte ci organizzavamo da soli delle repliche.
«Ma
perché non depositate i vostri testi?» ci disse un operatore della S.I.A.E.
La faccenda era complicata, soprattutto perché non avevamo i testi e
non c’era un unico autore, ma si trattava di invenzioni collettive.
Ne parlammo tra noi e decidemmo comunque di depositarli.
L’iscrizione costava circa ottantamila lire ad
autore, non potevamo iscriverci tutti: così si fece a estrazione per decidere
chi era l’autore dei testi e per garantire una maggior tutela si scelsero due
nomi, vennero estratti il nome di Ciano e il mio. Così iniziai la mia carriera di
autore per caso.
Ma prima di depositare i testi bisognava scriverli,
visto che non c’erano.
Risolvemmo la faccenda così: guardando le riprese traducemmo
dal video e alla fine anche noi ci omologammo alle altre compagnie, e da
allora, con fierezza, potemmo dire di avere dei copioni nostri e, addirittura,
depositati.
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