Teatro n. 4
Dopo ottobre, nel nostro emisfero, come di
consueto, arriva l’inverno.
E con l’inverno ripresero le nostre attività
teatrali, come di consueto al Lux. Ciano aprì la solita porta di servizio con
le solite chiavi, entrò e scomparve nel vuoto gridando.
Durante i mesi estivi erano iniziati i
lavori e per controllare lo stato delle fondamenta era stata scavata una buca
di un paio di metri, esattamente in corrispondenza della porta che usavamo noi
per entrare al Lux. E in quello scavo Ciano era precipitato.
Chiedemmo aiuto per trovare un nuovo
spazio, e il comune ci diede un’ampia stanza all’interno del consorzio agrario
dismesso del paese, lo stesso luogo in cui avevamo messo in scena il nostro
primo spettacolo, con le sedie che facevano schiantare a terra il pubblico.
L’idea ci piacque, organizzammo lo spazio
della stanza costruendo un palco con sotto il deposito per le scene, le pareti
vennero dipinte di nero.
Fayo procurò una stufa a legna e un
frigorifero.
L’arrivo di queste nuove attrezzature
contribuì a trasformare la nostra sede in un ambiente più domestico; la stufa a
legna oltre che per tentare, inutilmente, di riscaldare la sala, veniva usata
per preparare caffè, tisane e vin brulé, a volte anche per semplici cotture al
forno: Aurelio portava le giacenze di magazzino del suo negozio, quindi
gustavamo colombe pasquali verso Natale, panettoni e pandori verso Pasqua.
Il frigo conteneva sempre svariati liquidi,
talvolta anche l’acqua.
Per la corrente ci fu permesso di attaccare
una presa al contatore della stanza accanto, il deposito degli stradini, ma
c’era un problema: non potevamo accedere a quella stanza. Gnagno risolse la
questione praticando un foro nel muro divisorio, in modo da poter entrare con
un braccio e azionare l’interruttore del contatore.
Riprendemmo le prove nel nuovo covo. Sarebbe
stata la nostra ultima sede, ma noi questo non lo sapevamo ancora.
Durante i lavori di allestimento ci
trovavamo da Aurelio, per guardare Chaplin, Ollio e Stanlio, Buster Keaton,
Totò, Jacques Tati e tanti altri.
A volte discutevamo sulle citazioni, da Orson
Welles: “Credo che il regista deve pensarsi come il servitore degli attori e
della storia, l’importante è quello che gli attori faranno, non che gli attori facciano
quello che vuoi tu; scoprire quello che faranno e farlo venir fuori; dar loro
fiducia, arroganza, un attore deve pensare di essere grande”, a Beniamino Placido: “Se tutti,
attori, elettricisti, aiuto registi, si presentano volentieri sul set, se
lavorano con allegria, se si divertono mentre lo fanno, quel film sarà un
grande film”.
Guardavamo film, molti film.
Ci dedicammo ai film Billy Wilder, per citarnbe alcuni: Buddy Buddy, Non
per soldi ma per denaro, Quando la moglie è in vacanza e A qualcuno piace
caldo; “ma io sono un uomo!”
“che importa, nessuno è perfetto”.
Alla fine Aurelio ci propose la visione di
"One, Two, Three", del 1961, stimolando il nostro appetito.
Il gruppo era più esile
ma compatto: Ivano e Bigi si erano allontanati e con loro anche Carletto e il
suo tesoro. Albano aveva perso il suo ruolo di vivaista ed era caduto in balìa
di una delle sue pianticelle.
Le ragazze avevano
cercato altrove quello che i distratti attori non offrivano, ma Kate continuava
a frequentare il gruppo, e questo non dispiaceva a Lucio.
Una volta, durante una
replica, Fayo vide la sua schiena graffiata, ma Lucio non commentò. Gnagno
invece commentò parecchio le impronte di piedi che si notavano sul parabrezza
della macchina di Lucio.
Allestimmo un nuovo
spettacolo ambientato nella paradossale stazione di Montecalvo.
Il titolo strizzava
l’occhio al film di Billy Wilder, Un,
due, tren tren, ma con il film non aveva niente in comune, tranne il ritmo
elevato, i continui cambi scena e gli ingressi e uscite a orologeria.
Lo spettacolo iniziava
con Capo, avventuriero sbruffone, che leggeva L’isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson: “Lo ricordo come fosse ieri, quando entrò
con quel suo passo pesante, seguito dalla carriola che portava il baule. Alto,
poderoso, bruno, con un codino incatramato che gli ricadeva sopra l’abito
bisunto blu: le mani rugose e ricoperte da cicatrici, con le unghie rotte e
orlate di nero; e, attraverso la guancia, il taglio del colpo di sciabola d’un
bianco livido e sporco”.
Entrava
in scena Pino Pettenella, impiegato imbranato. I due, convinti di dover
affrontare chissà quale destino, si davano appuntamento alla stazione di
Montecalvo.
Il giorno dopo si
ritrovavano con Pettenella vestito in tela cerata gialla, con tanto di
cappuccio e stivali in gomma. Non ho mai sudato così tanto durante uno
spettacolo.
Il nostro tecnico luci
recitò in questo spettacolo per la prima e unica volta. Si trattava di Dario, lo svizzero dai
quattro cantoni che parlava tedesco e che all’Oktoberfest ringraziò con un bel
“grazie” in italiano il gruppo di accattivanti elvetiche che avevamo abbordato
con la scusa di farci fare una foto. Quando le ragazze se ne andarono, deluse
dal misero abbordaggio, rincorremmo Dario dentro i capannoni della birra
Hyppodrom fino a perderlo del tutto. Forse per questo nello spettacolo il suo personaggio di spia russa era
continuamente infilzato con un pugnale, per due ore. In scena si chiamava Perotto
e consentiva la battuta «Sei Perotto?» «Quarantotto», ogni volta la gente
rideva, ogni volta lasciandoci stupiti.
Poi c’erano i due scienziati pazzi
Neutrino e Neutrone, inventori della Wonderful Machine, in grado di
teletrasportare le persone, nella realtà un casco da motociclista pieno di lucine
e lucette dal notevole impatto scenico.
Il capostazione Tamarindo Lopez, Lucio, era
un pazzo che manteneva l’ordine mimando un’invisibile fionda e minacciando tutti
con un con «ti tiendo». Proteggeva così anche la sua amabile sorella Tatiana,
interpretata nel corso delle repliche da varie ragazze, l’unica presenza
femminile sulla scena.
Lo spettacolo, con la sua follia da
cartone animato, funzionò e ottenemmo titoli sui giornali e critiche positive:
la parola più usata nei commenti era “esilarante”.
Ancora i critici osservavano una regia carente, non c'era verso di far capire che eravamo carenti per scelta.
Alla fine c’era un treno che doveva
deragliare: Gnagno propose l’acquisto di una macchina per il fumo, ma Fayo
propose di usare un estintore a CO2.
«L’anidride carbonica fa una nuvola bianca
poi si dissolve in fretta e non abbiamo problemi di corrente. L’estintore lo
posso procurare io che nella mia ditta li carichiamo». Così si fece e funzionò
senza intoppi, o quasi.
Ci capitarono tre repliche consecutive,
venerdì a Verona, sabato a Padova e domenica a Vicenza. Era fine giugno, si
festeggiavano i Santi Pietro e Paolo, avere tre repliche consecutive ci faceva
sentire come dei professionisti.
«Allora domani siamo a Padova vero?»
«Sì, sì, e domenica a Vicenza».
Sapevamo benissimo dove eravamo, ma era
bello dirlo.
Arrivati a Vicenza ci accorgemmo che
l’estintore a CO2 era scarico, Fayo corse in ditta e ne prese su uno.
Recitavamo all’aperto, sopra uno slargo
davanti alla chiesa in piazza Santi Pietro e Paolo, tre bambini erano saliti
dai gradini e si erano seduti sulla scena.
Continuavano a fare gesti verso il
pubblico, distraendolo e distraendo anche noi.
«Fayo, dopo, quando il treno deraglia,
spaventali con l’estintore, spruzzane un bel po’ che così vanno via. Tanto la
CO2 non gli fa niente».
Il treno deragliò, e Fayo diede una bella
spruzzata ai tre ragazzini.
Fu un disastro, dalla fretta Fayo in ditta
aveva preso un estintore a polvere: la scena, i gradini e le prime file del
pubblico erano tutti impolverati, i tre bambini bianchi da capo a piedi.
Ci fu silenzio, i tre si alzarono,
lasciando sulla scenografia l’impronta delle loro sagome. Ciano fece partire la
musica finale in anticipo, salutammo in fretta, il pubblico ci applaudì alzando sbuffi di polvere.
Non sappiamo se la polvere fosse tossica,
non sappiamo cosa successe ai tre ragazzini. Ci auguriamo che stiano bene, e
che amino ancora il teatro.
Da quella replica Fayo provò sempre
l’estintore prima di usarlo.
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